Obiettivo: colmare quella distanza tra giornalisti e pubblico che permetta agli appassionati un'esperienza unica nel suo genere, un'esperienza di formazione da mettere a frutto
Di Cristian Sonzogni - Foto Ray Giubilo
Quando ero adolescente, internet non esisteva. O almeno, non come lo conosciamo oggi. Di certo non stava in ogni casa, men che meno nei cellulari. Reperire informazioni su ciò che ci interessava richiedeva dunque il passaggio obbligato attraverso due vie molto diverse tra loro: l'edicola e il telefono. Quello fisso, con la cornetta. In edicola potevi trovare (ma non sempre) la rivista specializzata che ti poteva dare un paio di dritte per capire quali passi compiere; al telefono potevi provare (ma non sempre) a contattare un ufficio che forse ti avrebbe aiutato per arrivare all'obiettivo.
Essere adolescenti, italiani e appassionati di tennis, negli anni Novanta, non era semplice. Lo era ancora meno se, oltre che limitarti a essere un appassionato di tennis da divano, avevi l'ambizione di voler assistere a qualche evento professionistico dal vivo. Quando andava bene, benissimo, il circolo vicino a casa faceva girare un volantino con un'offerta 'straordinaria' per una trasferta (di un giorno!) per Monte-Carlo o per Roma. Quando andava male, non c'era nemmeno quella. E se il circolo ti era precluso per motivi economici (accadeva spesso), non potevi che cavartela con le tue forze e le tue idee.
L'idea poi, quasi sempre e quasi per tutti, era la stessa: convincere mamma e papà (o anche solo uno dei due) a portarti nel luogo dove si giocava il torneo e per giunta in un orario da metronotte, per accaparrarsi i biglietti appena veniva aperto lo sportello. Così – tentavi di spiegare – non si sarebbe corso il rischio di fare il viaggio inutilmente. Di quei viaggi alimentati da poche certezze e da molte speranze ne ho intrapresi molti, verso tutti i tornei che erano raggiungibili in tempi e mezzi consoni alle possibilità di famiglia.
C'era Roma, c'era Monte-Carlo, c'era San Marino, c'era la Coppa Davis che ogni tanto faceva capolino in zone accessibili. E poi c'erano i sogni: quelli di andare un giorno a vedere gli Slam, di andare anche solo a vedere un torneo fuori dall'Italia. Perché sì, tecnicamente Monte-Carlo e San Marino erano 'estero', ma chiamarli 'estero' adesso mi sembra abbastanza eccessivo.
Una volta riusciti nell'impresa di entrare in possesso dell'ambito tagliando, il primo ingresso era il più palpitante, quello che lasciava sempre un po' senza fiato, un po' senza parole. Entravi in quel mondo che per giorni, per settimane o forse mesi avevi solo immaginato, e che di punto in bianco diventava reale. Persino l'aria sembrava diversa. Era come stare immerso dentro alla tivù, in quei luoghi che per tutto il resto dell'anno ti sembravano così lontani e immateriali.
Erano gli anni degli americani che dominavano il circuito ma che in Europa per la stagione su terra venivano poco e malvolentieri. Erano gli anni degli italiani che faticavano al punto tale che vederne uno negli ottavi di finale pareva un risultato da celebrare stappando lo spumante. Erano gli anni di un tennis fatto di caratteri diversi e caratteristiche uniche: chi più legato al veloce e al gioco di rete, chi più alla terra e alla regolarità. Una cosa, però, colpiva allora come oggi: la distanza tra i vari livelli. Che da un lato alimentava il mito, dall'altra limitava quelle esperienze a un'osservazione tutto sommato poco distante, in termini pratici, da quello che si poteva avere restando inchiodati a casa propria.
Fatte pochissime eccezioni (Andre Agassi?), non era ancora il tempo dei giocatori blindati dalle guardie del corpo e dai manager che finiscono per controllare passo passo spostamenti e parole. Però era comunque già avviato quel processo di distanziamento tra campioni e pubblico che da lì in avanti si sarebbe fatto sempre più marcato e – a detta di molti – obbligato. Loro per una strada, i fan per l'altra.
Tutto ciò già prima (e a prescindere) dall'arrivo nelle nostre vite del Covid-19. In più, c'era un altro livello intermedio fatto da quelle persone che giocatori non erano, ma che coi giocatori erano in contatto costante: i giornalisti. I quali a loro volta avevano a che fare coi coach, i preparatori, gli stringer. Tutti i professionisti che quel mondo lo vivono tutto l'anno, e che di quel mondo sapevano tutto. Ma proprio tutto.
Fu anche da quelle osservazioni, probabilmente, che nacque la consapevolezza di voler provare a percorrere la strada del giornalismo come professione. Un obiettivo che poi si è concretizzato, permettendomi in effetti di avere accesso a quel 'dietro le quinte' che da spettatore avevo solo potuto immaginare.
Proprio perché ricordo molto bene cosa avrei desiderato quando ancora facevo parte del pubblico, ho maturato il desiderio di provare a completare l'esperienza di ogni singolo tifoso con un bonus, una visione più ampia rispetto a quella che propone il biglietto che dà accesso alla tribuna. Ho maturato l'idea che un'esperienza è davvero completa se ti permette di tornare a casa con qualche conoscenza in più in merito al mondo che ami o al giocatore che ammiri.
Certo, c'è internet, oggi. Quello che negli anni Novanta non c'era. Ma non parliamo dello stesso tipo di informazioni. Chi ha avuto il piacere e la fortuna di scambiare quattro chiacchiere dal vivo con un addetto ai lavori capisce perfettamente la distanza siderale che intercorre tra le informazioni che passano dalla rete e quelle prese 'di prima mano' dalle parole di un 'insider'.
Senza contare il fatto che da casa, quasi mai è possibile avanzare una domanda, quasi mai è possibile una vera interazione, al di là di quella sempre molto controllata che viene messa in scena sui social. Quanto alla stampa, un detto che gira nell'ambiente è che 'le notizie più belle non si possono mai dare': un'esagerazione, ma che contiene più di un fondo di verità.
Per questo – ci siamo detti con alcuni colleghi che la pensavano allo stesso modo – l'ideale sarebbe non avere quei confini tra pubblico e stampa, sarebbe abbattere almeno la prima barriera e cominciare ad avere accesso almeno in parte a un mondo altrimenti troppo chiuso su se stesso.
Rispetto a 30 anni fa, il tennis ha fatto un salto di popolarità fuori da ogni immaginazione. Prima in tutto il pianeta, grazie ai tre fenomeni – Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic – che hanno riscritto la storia e portato la racchetta a diventare un fenomeno di massa. Poi in particolare in Italia, dove questo progetto ha visto la luce, con la crescita impetuosa di un movimento oggi tra i più sani e ben costruiti al mondo. Con tanti giocatori di valore (e in media molto giovani) e l'organizzazione di alcuni degli eventi più importanti del Tour dei pro.
Per mantenere viva questa popolarità più a lungo possibile, c'è bisogno di far sentire il pubblico partecipe di un evento, al di là della visione di una partita dalla tribuna. C'è bisogno di interazione, anche (soprattutto?) in tempo di pandemia. C'è bisogno di partecipazione intesa in senso ampio. Nel nostro ruolo, noi giornalisti possiamo dare una spinta decisiva a questo processo, facendo da trait d'union tra due mondi altrimenti destinati a viaggiare sue due linee parallele.
Non si andranno a perdere i miti, non si perderà la parte affascinante di quella distanza che per certi versi è giusto debba rimanere. Si andrà semplicemente ad aggiungere conoscenza, e dunque ad alimentare un rapporto più sano tra tifosi, stampa e giocatori. Fornendo agli appassionati un servizio che mai, in precedenza, avevano trovato. Nell'interesse loro, ovviamente, ma in fondo nell'interesse del tennis, che come molti di noi sanno bene è – in ambito sportivo – la più grande metafora della vita. E dunque un bene da preservare e curare al di là dei singoli campioni che lo abitano.
Ecco perché è nato Set and the City, ecco che cosa propone. Un modo per avere, tutti insieme, gli eventi del Tour che decideranno di condividere con noi questa visione del tennis che verrà. Un unico punto di approdo che permetta ai fan di riservare i biglietti, ma non soltanto: che permetta anche di prenotare per tempo la propria esperienza da 'insider', con la propria guida personale pronta a raccontare ciò che accade: personaggi, dettagli, storie. Ogni torneo ha una sua storia esclusiva, ma noi ogni volta ne aggiungeremo un'altra, collegata a quell'evento e densa di particolari, densa di informazioni utili da utilizzare anche sul campo, una volta tornati a casa.
Non ci limiteremo agli appuntamenti più popolari, ma porteremo il progetto un po' ovunque, dove troveremo qualcuno che la penserà come noi. Così non soltanto scopriremo insieme che il circuito è puntellato di piccoli gioielli (molto spesso, a buon mercato), ma scopriremo pure che una vacanza (di sette o di tre giorni) all'insegna del tennis porta anche a città meravigliose e mai viste, come pure a villaggi da favola che attendono solo di essere conosciuti.
Abbiamo l'ambizione di spalancarvi un giro del mondo fatto di sport di alto livello, ma senza quelle barriere fatte di ruoli distinti e distanti che solitamente ci troviamo di fronte quando varchiamo la soglia degli stadi. Un'esperienza che vi consigliamo fortemente di prenotare (o di regalare a chi amate, perché no) con grande anticipo: i nostri gruppi, per fornire il migliore servizio possibile, saranno composti soltanto da 10 persone. E i tagliandi volano via, finendo sold-out anche con 6-8 mesi di anticipo: la voglia di tennis, ovunque, è talmente forte che non attende nessuno.
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